Quando fu fondata? Alla domanda storici più o meno autorevoli hanno dato risposte contrastanti, per la oggettiva difficoltà di stabilire una data certa, per la mancanza di documenti coevi.
La data di fondazione del 1096, sostenuta da Rocco Pirri e dagli storici che ad esso si sono riferiti, è comunque erronea, perché si riferisce al Gran Priorato e non alla chiesa.
Il più antico documento, che menziona la chiesa di S. Andrea, porta la data del 30 novembre (festa di S. Andrea Apostolo) del 1148. Con esso Simone conte di Butera donò la sopradetta chiesa all’Ordine del S. Sepolcro.
Nel Diploma di concessione si legge: «…nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti amen. Notum sit omnibus tam presentibus quam futuris presentem paginam inspecturis, quod ego Simon comes Butere trado dono et concedo, de consensu et voluntate uxoris meae domine thomasiae, quandam meam ecclesiam, que est extra Placem in honorem Sancti Andree fundatam, cum quatuor molendinis et aliis omnibus suis, ecclesie sancti Sepulcri domini nostri christi, libere et quiete et sine aliquo servitio perpetue possidendam. Hoc donum facio pro anima incliti comitis Rogerii et pro incolumitate et statu gloriosissimi regis Rogerii domini mei et filiorum eius, et pro anima patris mei comitis Henrici, et pro salute anime mee et omnium parentum meorum.
Trado etiam predicte ecclesie cappellam Sancte Agathe cum terciaria Placee; dono preterea antedicte ecclesie Dominici Sepulcri casale Gallinite; habens quinque rudticas, cuius est divisio: incipit a Fucello qui venit de Sancte Cruce, deinde vadit viam regiam… usque ad flumen quod descendit de mare Provincialium, inde descendit per sacellum usque ad passum qui venit de Lambacara, ascendit sicuti aqua est usque ad Viam Sancte Crucis et ibi clauditur.
Concedo preterea dicte ecclesie Sanctum Giorgium iuxta Buteram cum tenimentis suis, Placeam quoque Veterem cum toto plano Aymerici et Viniale comitisse; dono preterea sepe dicte libere pascua sine ullo censu per totam terram meam, et armenta et pecora sua, si ea Deus tibi donaverit, duas quoque salmas lignarum accipiat cotidie (sic) in bosco meo pro expensis. Si quis autem nostre istitutionis paginam sciens venire temptaverit, primo secundo tertiore commonitus, si non resipuerit iaculo anathematis feriatur, et cum Juda traditore damnetur, regie nec non curie in penam centum uncias teneatur, quorum medietas predicte ecclesie integre persolvantur. Hac autem nostra concessio facta est in festo Beatissimi Apostoli Andree pridie Kalendas decembris, per manus Guilielmi Gramatici notarii nostre curie, in presentia subscriptorum Rogerii filii comitis, Iozo de Placea, Abbo de Garisio, Riccardi de Gubio, Guidelmi de Tyrone, Costantini de Paternione. Anno dominice incoronationis MCXWCXVII indictione XII. + signum Guillelmi Grammatici domini comitis notarij».
Lo storico Litterio Villari scrive: “Dalla descrizione delle pertinenze che il conte Simone assegnava all’Ordine del S. Sepolcro noi riconosciamo nel: ‘Casale Gallinite’, l’antico casale di Gallinica, posto nella odierna contrada piazzese di tal nome; ‘Fucello qui venit de Sancte Cruce’, un torrente che scende dal Monte S. Croce; ‘Lambacara’, l’antico casale piazzese di Imbaccara, oggi l’odierno comune di Mirabella Imbaccari; ‘Flumen Provincialum’ o fiume dei provenzali (cosi chiamati anche i Lombardi della nostra zona), il fiume di Quattro teste e di Gatta che scorre nei territori di Aidone e di Piazza; ‘Placeam quoque Veterem’, l’attuale contrada di Piazza Vecchia; ‘Plano Aymerici’, la contrada di Piano Marino (attigua a quella di Piazza Vecchia) che in quel tempo era un feudo; ‘Viniale Comitissa’, una vigna della Contessa di Butera, posta nella menzionata contrada Monte S. Croce; ‘Bosco meo’, la predetta contrada di Bosco Blandino, già menzionata nel diploma dell’anno 1141”.
In un altro documento del 1182 si legge, alla fine, che fu sottoscritto da ‘Petrus Prior Sancti Andreae’ e da ‘Frater Araldus Sepulcri’, cioè da Pietro Priore di Sant’Andrea e da Frate Araldo del Sepolcro.
Quanto alla data di fondazione del tempio di S. Andrea, alcuni storici lo dicono fondato nel 1096 ’ insieme al Gran Priorato; altri nel 1106; altri lo dicono ricostruito verso la fine del XII secolo. Quest’ultima tesi trova fondamento storico, in quanto Piazza nel 1163 fu distrutta da Guglielmo I, e nel 1169 fu, ancora una volta, distrutta da un terribile sisma che devastò Catania e investi la Sicilia centro- orientale.
La chiesa medievale è costituita da una semplice costruzione in pietra arenaria rosata, sovrastata da un piccolo campanile. La facciata ha un bel portale ad archi acuti incassati; il prospetto laterale presenta finestre a feritoia e due portali scolpiti. L’interno, ad una sola navata, presenta un transetto sopraelevato, con un’abside principale e due laterali.
Da un’analisi architettonica del monumento si evincono elementi decorativi di dati cronologici diversi come nei portali, quello principale e quello meridionale.
Le colonne, addossate agli sguanci nel portale principale, si affermano nel XIII – XIV e XV secolo; basta ricordare: il portale principale della Basilica di S. Francesco d’Assisi (1302); il portale della cappella del castello di Favara (del XIV secolo); il portale principale della chiesa di S. Agostino di Palermo (dei primi anni del XIV secolo). Le colonnine inalveolate, presenti nel portale meridionale e gli spigoli di risvolta delle absidi si estendono in Sicilia verso la fine dell’XI secolo; a questo periodo vengono attribuite le colonnine inalveolate, presenti nelle absidi della cattedrale di Catania.
Secondo Walter Leopold, la chiesa fu costruita intorno al 1100, in piena dominazione normanna; lo dimostrano i capitelli marmorei delle colonne del portale principale.
Per Enzo Maganuco, che si rifà alla data del 1106, il tempio è un risultato armonico dello stile romanico (per l’insieme robusto e squadrato, portato dai coloni lombardi al seguito dei Normanni), con quello arabo (per gli archi acuti e sguanci), o bizantino (per alcuni antichi affreschi, quali “la Madonna della faccia grande”).
Stefano Bottari, prendendo come possibile data di fondazione il 1148, colloca la costruzione della chiesa anteriormente a questo anno.
Anche per Guido Di Stefano l’anno di costruzione è anteriore al 1148, pur evidenziandosi elementi più tardivi; ma egli scrive che “molti caratteri apparentemente tardivi possono ricondursi a quelle particolari influenze settentrionali, non ancora studiate, che si manifestarono nei centri abitati, come Piazza, da popolazioni lombarde”.
Per il Di Stefano in questo monumento, come in altri coevi della Sicilia, si registra l’assenza di ogni influsso orientale, sia bizantino che musulmano, e la presenza, quasi esclusiva, di austeri caratteri romanici, che hanno i loro presupposti sull’architettura dell’Italia peninsulare.
Pietro Loiacono, che nel 1952 diresse i lavori di restauro del tempio, scrive: “Come nella Penisola, anche in Sicilia, il periodo romanico presenta aspetti distinti, che corrispondono alle diverse popolazioni che allora abitavano l’isola. Nella provincia di Messina, la prima ad essere conquistata dai Normanni, si ha il romanico di origine bizantina, simile a quello della vicina Calabria; mentre a Palermo e nelle province occidentali, predomina il romanico eclettico, con forti influssi arabo-bizantini.
Nell’interno l’architettura si riduce a schemi essenziali, nei quali predomina l’influsso lombardo…
Concludendo, per quanto i dati storici riferenti alla chiesa del Priorato di S. Andrea a Piazza Armerina non diano sicuri riferimenti cronologici, circa la costruzione in esame, si può rilevare, da questo come da altri esempi che, accanto ad un’arte aulica, ancora legata ai tradizionali schemi bizantini e saraceni (questi ultimi limitati alle firme decorative), esistono contemporaneamente in Sicilia costruzioni di carattere provinciale, maggiormente diffuse nei paesi dell’interno, che contengono i primi embrioni del gotico italiano”.
Il Loiacono, come data probabile di costruzione, si orienta verso la metà del XIII secolo, poiché nel 1144 Celestino II riconosce giuridicamente l’Ordine del Santo Sepolcro.
Giuseppe Bellafiore, collocando l’isola nell’area della civiltà e cultura islamica, sostiene che i caratteri architettonici della Sicilia, nel periodo normanno risentono della forma musulmana; basta citare Palermo. Lo stesso Raffaello Delogu, parlando delle colonne delle absidi e del portaletto meridionale ha visto “un esito provinciale del noto motivo arabo della colonna inalveolata”, e negli affreschi “qualche aspetto ancora arabeggiante”.
Questi ultimi, databili tra il XII e il XIV secolo sono stati rinvenuti nel 1958 con la rimozione di sovrapposizioni del 1743. Il restauro fu eseguito negli anni 1958-1962 dal prof. Giovanni Nicolosi, per iniziativa del Conte Arturo Cassina ed a cura della Soprintendenza ai monumenti della Sicilia orientale, portato a termine dalla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Palermo.
Fra i principali frammenti di dipinti esistenti si ricordano: Anonimo bizantino (sec. XII): Frammento con volto di Santa ed Angelo (m. 1,05×1,79), Figura di Santo (m. 4,75×1,98), Arcangelo e Santi (m. 2,34×1,83), frammento figurato (m. 1,10×1,79); Anonimo meridionale (sec. XII – XIII); Figura di Santo (m. 0,87×2,11), San Martino (m. 2,00×2,25), “Dormitio Virginia” (m. 2,26×2,56), Madonna col Bambino e figura di Santo ( m. 2,33×1,86), Crocifissione di Sant’Andrea (m. 1,93×2,96), Annunciazione, Natività, Strage degli Innocenti (m. 2,45×4,06), frammento di Deposizione della Croce (m. 0,95×2,65), frammento con figura di Santo (m. 2,36×1,05); Anonimo meridionale del sec. XIII: Santo Vescovo (m. 2,50×1,16), Crocifisso con Santa Caterina d’Alessandria ed altro frammento di Santa (m. 2,19×3,06); Anonimo meridionale degli inizi del sec. XIV: frammento con San Giovanni ai piedi della Croce (m. 1,55×0,76); Anonimo siciliano della fine del sec. XIV: frammento con la Madonna ed il Bambino (m. 1,67×1,52); Anonimo siciliano degli inizi del sec. XV: Messa di San Gregorio (m. 2,96×1,36), frammento con Sant’Agostino (m. 1,82×1,36), Resurrezione (m. 2,42×1,76). Alla seconda metà del XV secolo è da classificarsi l’affresco di S. Antonio Abate in cattedra, datato 1486.
Francesco La Morella e Rosa Oliva, descrivendo il monumento, dicono: “La chiesa del Gran Priorato di Sant’Andrea sorge al di fuori del centro abitato di Piazza Armerina, dopo le ultime case della via Torquato Tasso, recente arteria stradale coinvolta dalla nuova espansione edilizia del comparto nord-occidentale della città. A chi proviene dalla suddetta strada, la chiesa presenta lo svolgimento severo e compatto dei due prospetti meridionale ed orientale, rispettivamente laterale e posteriore in un’unica ed immediata immagine, completata sullo sfondo da un verde e muto paesaggio collinare.
Tale immagine, suggestiva e carica di valori ambientali ed architettonici, viene però a perdere parte della sua essenza quando l’osservatore si inoltra verso il prospetto principale ad occidente e da qui, verso quella settentrionale. Infatti, le strutture in cemento armato di un grande edificio rimasto incompiuto non solo deturpano i valori architettonici della chiesa, ma corrompono gravemente ogni immagine che da quel contesto a nord-ovest nasce.
Estrema semplicità e scabra compattezza sono senz’altro le componenti peculiari dell’organismo architettonico della chiesa di Sant’Andrea. Ciò che infatti emerge immediatamente nella lettura di questo brano di architettura è il gusto di un asciutto rigore geometrico e di una calcolata razionalità, rilevabile in ogni parte dell’edificio, sia all’esterno che all’interno, sia nello schema iconografico che nell’alzato.
L’esterno presenta piatte superfici murarie, in pietra arenaria, incise solamente da piccoli portali ogivali e da strette finestre a feritoia; nel prospetto principale questa scabra compattezza appare però ravvivata da un portale archiacuto di ampie dimensioni e dalla piccola sovrastante finestra a occhio. Il grande portale, incassato nella facciata, a ghiere multiple, conserva solamente un capitello con eleganti foglioline e le basi di quelle colonnine che in origine si trovavano alloggiate ai ganci dei piedritti.
Il portaletto situato sul braccio meridionale del transetto presenta invece tozze colonnine annicchiate all’interno degli spigoli di risvolta dei piedritti. I portali, collocati bilateralmente alla navata, appaiono simili a quello del prospetto principale, ma di minori dimensioni e privi di colonnine.
La definizione esterna dei volumi della lunga navata, dell’aggettante transetto e della piccola abside a perimetro esterno rettilineo risulta intaccata dall’aggiunta della massiccia torre del campanile a fianco dell’abside e dell’ampliamento del braccio meridionale del transetto, pertanto il disegno esterno ad esso soprattutto, benché lasci ugualmente intuire con una certa immediatezza l’impianto planimetrico originario adottato in questo organismo, ha perso parte della sua nitida e cristallina rigorosità geometrica.
L’interno svolge la pianta a croce commissa, con lunga navata coperta da tetti e capriate e santuario sopraelevato; sul lato orientale del lungo transetto, diviso in tre parti da alti archi a sesto acuto si aprono l’abside centrale e due absidi laterali.
Sia l’abside principale che quelle laterali ripetono il motivo delle colonne annicchiate negli spigoli di risvolta. L’insieme appare nel suo complesso severo e solenne, caratterizzato dalle alte e lisce pareti bianche della navata, e da quelle nude in pietra del transetto e delle absidi, incise solamente dagli esigui vani di luce.
Gli altari, le fonti dell’acqua benedetta, e tutte le sacre suppellettili portano l’impronta delle cinque croci, con lo stemma del Gran Priore.
Sullo spigolo di una cantonata del lato nord dell’annesso convento, si trovano due antichi blasoni; in uno si trova un’aquila bicipite coronata, ed un guerriero sottostante; nell’altro è scolpito un leone rampante, con, sopra una zampa sollevata, un mappamondo sormontato da una croce e tra i piedi una cassa sepolcrale.
Con decreto, datato 3 giugno 2001, S. E. Mons. Vincenzo Cirrincione Vescovo di Piazza Armerina e Priore della Delegazione, la Chiesa di S. Andrea è stata affidata ai Cavalieri del S. Sepolcro.
Roberto Calia
(dal volume L’Ordine Equestre del S. Sepolcro in Sicilia)
La chiesa di S. Cataldo si eleva sullo stesso stereobate sul quale è impiantata la chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio, soprannominata della Martorana, che costituiva uno degli spalti orientali dell’antica Palermo romana.
La costruzione muraria di questa splendida chiesa, voluta forse da Maione di Bari, ammiraglio e gran cancelliere del re Guglielmo I, intorno al 1154, è molto somigliante a quella di S. Giovanni degli Eremiti, ma la pianta se ne allontana, è a tre navate terminate da absidiole, ed a quella di S. Maria Maddalena.
Ciò si evince da un documento del luglio 1175, nel quale Guglielmo, conte di Marsico, dichiarava di aver venduto alla Dogana dei Baroni tutte le case da lui possedute a Palermo, presso la chiesa di Giorgio d’Antiochia, in onore della Beata Vergine ed aggiungeva che queste, compresa la cappella di S. Cataldo, appartenevano a Maione di Bari.
La chiesa è attigua alla Martorana, voluta dall’ammiraglio Giorgio di Antiochia, ministro di Ruggero II, e sorse come cappella di un sontuoso palazzo oggi scomparso, nei pressi di quella che fu la casa di Goffredo Martorana.
Il Maione, essendo pugliese, nel far costruire la chiesetta si è ispirato alla tipologia delle costruzioni romaniche della sua regione, caratterizzate da cupolette di copertura delle navate.
Le tre cupolette al centro della piccola navata centrale non sono costruite col sistema della chiesa della Martorana ma a piccoli blocchetti, in maniera che se ne veda la struttura costruttiva.
Il Bellafiore ricorda che “in talune chiese che esprimono paradigmaticamente la idealità architettonica fatimita, quali ad esempio S. Giovanni degli Eremiti e S. Cataldo di Palermo, nate nell’età di re Ruggero che segna il culmine di quell’arte, la qubba cupolata è la cellula primigenia che genera, doppiandosi o triplicandosi per accostamento, l’organismo longitudinale”.
La cupola, nelle chiese siciliane dell’età normanna, qualunque sia la loro iconografia e lo sviluppo in alzato, è un elemento costante.
Essa, contenendo di fatto o idealmente l’immagine di Cristo e riscontrando nella sua concavità la volta celeste, fu ritenuta, per tipica e caratterizzante sollecitazione del mondo bizantino, indispensabile; quando, per ragioni tecnico-costruttive, come nelle grandi cattedrali, non ne fu possibile la realizzazione, si provvide a sostituirla con soffitti lignei cupoliformi, come, ad esempio, nella cattedrale di Palermo.
Intorno al 1160 divenne proprietario della chiesa l’ammiraglio regio Silvestro di Marsico, che nel 1161 vi fece seppellire la figlia Matilde, alla memoria della quale rimane una lapide:
EGREGII. COMITIS. SYLVESTRI. NATA MATILDIS
NATA. DIE. MARTIS. MARTIS. ADEMPTA. DIE
VIVENS. TER. TERNOS. HABUIT. MF.NSES. OBIITQUE
DANS. ANIMAM. COELIS. CORPUS. INANE. SOLO
HEC. ANNIS. DOMINI. CENTUM. UNDECIES. SIMUL. UNO
ET. DECIES. SENIS. HAC. REQUIESCIT. HUMO
Secondo lo storico Lello, “questa chiesa fu parrocchia, scrivendo Honorio III a 22 d’aprile del 1220 al vescovo di Cefalù e all’abbate di Santo Spirito di Palermo, che conoscessero la causa fra Pietro cappellano di San Cataldo e il capitolo di Palermo sopra le ragioni parrocchiali et il cimiterio di detta chiesa et altre differenze.
Più tardi lo jus parrocchiale da questa chiesa fu trasferito alla chiesa di S. Antonio”.
Nel 1182 Guglielmo II donò alla comunità benedettina di Monreale la chiesa e gli edifici annessi, che li mantenne fino al 1787; anno in cui i locali furono adibiti a uffici della regia posta, e nella cappella, ridotta in penose condizioni, si manipolarono pacchi e sacchi di corrispondenza.
I monaci benedettini la utilizzarono come gancia per la cura degli infermi e, restaurandola, la decorarono al suo interno di stucchi, per volontà dell’arcivescovo Mons. Giovanni Roano nel 1679.
Il sacro tempio, di raffinata ed elegante fattura, nel disegno presenta “dei rincassi ad archeggiature acute (con una interessante soluzione d’angolo) che modulano il compatto volume dell’edificio in conci (di tufo) squadrati.
Le ghiere rientranti includono tre finestre per lato.
Solo l’abside centrale è visibile all’esterno, costringendo la ricca cimasa arabeggiante, che corona l’edificio, a curvarsi.
L’arco della grande abside poggia su due colonne che provengono da monumenti corinzi.
Le tre tipiche cupolette rosse emisferiche, a sesto rialzato con finestrelle, sono impostate su un unico tamburo rettangolare sul quale si aprono alte finestre”.
L’interno, disadorno di mosaici, mostra meglio lo schema costruttivo arabo-bizantino, specie nei raccordi delle cupole a spigoli taglienti.
Le sei colonne che reggono gli archi ogivali delle navate presentano antichi capitelli provenienti da edifici vari.
Solo lievi archeggiature acute e di valore chiaramente lineare animano leggermente senza soverchiarla la massa geometrica e compatta dell’edificio, con un leggiadrissimo ornato a traforo, simile a una trina corona, introducendo una nota di fragile e preziosa eleganza nell’astrazione matematica del cubo.
Giusi Lo Tennero scrive: “L’impianto planimetrico è a tre navate. La navata centrale, di ampiezza doppia rispetto alle laterali, è divisa da queste ultime da colonne di spoglio di differenti altezze su cui sono impostati archi ogivali, tanto longitudinalmente che trasversalmente, cosi da costituire tre campate.
Ad un quarto circa dell’ultima di queste, un diverso piano di calpestio sottolinea la zona presbiteriale, costituendo una sorta di bema (rialzo).
Le navate laterali sono coperte da volte a crociera ogivale, la centrale da cupole emisferiche rialzate estradossate e impostate su pennacchi di raccordo a cuffia; le tre absidi da semicupole contenute nella scatola muraria.
L’illuminazione del corpo basilicale è assicurata da un sistema di finestre archiacute lungo tutto il perimetro in corrispondenza delle campate, delle tre absidi e sopra il portale d’ingresso.
La navata centrale è inoltre dotata di ulteriori fonti di illuminazione costituite da finestre archiacute poste nel tamburo, e alternate alle cuffie angolari, nonché nel soprassesto delle cupole, in asse con i pennacchi angolari”.
Interessante è la pavimentazione in marmi vari, con intarsi musivi coevi all’edificazione della chiesa, che ne fanno l’unica risorsa cromatica dell’armoniosa chiesetta, nella quale la decorativa islamica risplende nei suoi variatissimi ornamenti per la vaghezza d’intreccio e per quella simmetria che si raccorda mirabilmente all’effetto totale.
Scrive il Bellafiore che nelle chiese normanne i pavimenti “sono realizzati a mosaico o a tarsia marmorea e svolgono generalmente motivi geometrici aniconici in cui è dominante la larga fettuccia che, intrecciandosi, forma figure varie che hanno spesso il loro centro o nella stella ad otto punte o in dischi di porfido.
I pavimenti siciliani dell’età normanna, se da un canto esprimono modi e forme della Koinè fatimita, d’altro canto s’inseriscono con qualche reciproca influenza, in un ampio terreno culturale mediterraneo, anche latino e bizantino, in cui sono fusi suggerimenti orientali e musulmani omayyadi e abbasidi.
Molto originale è l’altare monoblocco, in marmo bianco, con scolpiti una croce al centro, ed ai lati i simboli dei quattro evangelisti: il leone (Marco), il vitello (Luca), l’uomo (Matteo), l’aquila (Giovanni).
All’esterno, alla fiancata meridionale della chiesa, nel corso degli anni furono addossate delle casupole e nei primi anni del XIX secolo nello spazio tutt’intorno alla costruzione normanna, viene realizzata una struttura per ospitare la sede della Regia Posta.
Quest’ultima aveva l’accesso dalla piazza Bellini sulla quale prospettava un alto porticato.
L’ufficio postale era a tre elevazioni che venivano servite da una scala con lucernaio, addossata alla facciata principale della chiesa, di cui era visibile soltanto il portale d’ingresso chiuso da un tavolato.
L’interno della chiesa non era utilizzato dagli impiegati postali ed era sotto la tutela della Commissione di Antichità e Belle Arti.
Nel 1867 la Direzione delle Poste di Palermo decide di utilizzare l’interno della chiesa come ufficio per la distribuzione della corrispondenza ai portalettere.
Informata, la Commissione, prima ingiunge di sgombrare l’aula del sacro edificio per timore che si potessero arrecare danni al mosaico del pavimento, successivamente accetta la proposta di ricoprire la pavimentazione con un tavolato che la difenda.
Il 2 aprile 1871, Michele Amari si fa promotore di una interpellanza parlamentare: “Tra i monumenti dell’epoca normanna della Sicilia, havvi una piccola chiesa chiamata di S. Cataldo… la quale attualmente trovasi rinchiusa nell’ufficio della Posta. L’ufficio della Posta è stato ingrandito in vari tempi, in guisa che, intorno a questa piccola chiesa abbandonata, si sono fatte le altre stanze, e la Posta, non avendo sufficiente luogo per i suoi uffici, si è estesa da dieci anni in qua, in modo che ha occupato tutto lo spazio compreso tra l’antica chiesa della Marturana e la grande via Maqueda, di faccia all’Università degli studi. Dico solo da dieci anni, perché le Poste di Sicilia sino al 1860 erano qualche cosa da far ridere: non venivano dal continente che due corrieri alla settimana, onde non è meraviglia se il lavoro era poco, e poco spazio bastava all’ufficio. Ora con lo sviluppo che ha felicemente preso da noi questa importantissima amministrazione, la Posta ha bisogno di un vasto locale. Non trovandosi altre stanze a dritta, a sinistra, a fronte, né alle spalle, si occupò la piccola chiesa racchiusa nello uffizio e vi si installarono i fattorini. Ma la posta, come io dissi, è una delle amministrazioni le meglio regolate d’Italia. L’amministrazione ebbe cura di far coprire di assi il pavimento che è tutto lavorato a mosaico, con bei disegni.. Ma le precauzioni prese dall’amministrazione, se tendono a conservare il pavimento lo occultano al tempo stesso. Inoltre non è cosa facile a studiare né a vedere soltanto, il monumento, perché la Posta deve lavorare e non può ammettere sempre dei curiosi. In fine, per quante cure si abbino, pure il monumento destinato ad uffizio pubblico si guasta sempre. Esso è uno dei più belli di quell’epoca… una chiesa di figura greca, con eleganti colonne, con archi gotici, con tre di quelle graziose cupole arabe che si costruivano allora in Palermo. Ho saputo che appunto per l’insufficienza del locale della Posta, si ha sollecitato il Ministero dei Lavori Pubblici a tramutare la Posta di Palermo in un altro locale detto il Carminello. Poiché è presente l’onorevole signor Ministro delle Finanze, mentre da un lato io prego l’on. Ministro dell’Istruzione Pubblica che lo solleciti, oso anch’io di fargli direttamente la preghiera di approvare prestamente la cessione e riordinamento del Carminello ad uffici di Posta”.
Il Ministro alla Pubblica Istruzione, Cesare Correnti, si impegna a sollecitare la pratica anche se considera tali problemi “di importanza secondaria per la Nazione, quantunque possano importare assai alla città di Palermo… Questa chiesa di stile arabo normanno è certo di non lieve importanza per la storia dell’arte, quantunque non credo, possa considerarsi come un monumento nazionale di prim’ordine; e tanto è vero, che fino adesso è rimasta poco meno che ignorata… Quasi in ogni città. d’Italia, certo in ogni provincia, vi ha monumenti che richiederebbero cure e spese immediate; io non posso altro che versare qualche scarsa gocciola su questo invisibile ma incessante incendio del tempo, che consuma tutte le nostre antichità… Nell’isola di Sicilia, alla conservazione de’ monumenti antichi si provvede con un ordinamento regionale: per cui io potrei pregare l’onorevole mio amico Amari di rivolgere la sua interpellanza alla Commissione di Antichità che siede in Palermo, commissione che ha una data sua propria, che ha una grande libertà d’azione e può e deve provvedere ai bisogni locali…”.
Il trasferimento definitivo, tra lungaggini burocratiche e lenti lavori di adattamento, avviene nei primi mesi del 1875.
A trasloco avvenuto, si riapre il dibattito sul restauro di S. Cataldo e sulla demolizione delle “moderne fabbriche”.
Nella sua relazione, Cavallari così si esprime: “Isolare questo edilizio e sgombrarlo dalle fabbriche che lo deturpano e lo rendono invisibile agli studiosi della storia delle arti, non sarebbe una cosa degna della civiltà e della cultura del nostro secolo?”
Il Comune di Palermo, proprio in quegli anni, aveva mostrato particolare interesse per il restauro e il decoro dei monumenti più antichi della città, e anche per S. Cataldo manifesta la volontà di concorrere alle spese necessarie, stanziando nel 1878, sotto la sindacatura di Emanuele Notarbartolo, la somma di dodici mila lire.
Ma il successore di Emanuele Notabartolo, Francesco Paolo Perez, non mantiene le promesse del predecessore, “in considerazione che i monumenti nazionali appartengono al Governo, ed al Governo ne incombe quindi la conservazione”.
La demolizione delle superfetazioni, cioè degli ex locali dell’ufficio postale, viene eseguita nell’estate del 1881 dall’appaltatore Rutelli.
Il Patricolo, fin dall’agosto 1878 aveva redatto un progetto di restauro ed effettuato alcuni interventi di liberazioni: “Toglievasi la barocca tettoia che copriva le tre svelte cupole della navata centrale, e veniva scoperto un frammento d’iscrizione latina posta in mezzo a due cornici intagliate nella parte superiore del muro esterno orientale; e al di sopra dell’iscrizione una bellissima merlatura, pure in pietra intagliata, che serviva di coronamento all’edificio. Questa piccola parte scoperta era pressocché cadente, sicché fu indispensabile puntellarla alla meglio, nella speranza che presto si sarebbe posto mano ai restauri”.
Agli studi sul prezioso monumento partecipa anche Antonino Salinas, direttore del Regio Museo di Palermo, che condivide la riscoperta dei monumenti medievali siciliani.
L’elaborato progetto di restauro presentato dal Patricolo viene approvato dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nel febbraio 1882 con le seguenti motivazioni: “Considerato che l’importanza archeologica di un edificio pubblico, la cui costruzione risulterebbe rimontare alla prima meta del XII secolo, giustifica il concetto di eseguire le riparazioni che occorrono, per non lasciare maggiormente deperire gli avanzi che restano della chiesa di S. Cataldo in Palermo e per restaurarla in parte; che nulla si trova da osservare né sulle opere che il Signor Architetto Patricolo propone a questo fine, né sulla perizia della presumibile spesa che sarà per occorrere. Considerato che la natura dei lavori, che sono da farsi, giustifica la esecuzione dei medesimi in economia, sotto la deduzione del predetto sig. Architetto Patricolo d’accordo colla Commissione Conservatrice dei monumenti di quella Provincia, è di parere che il Ministero dei Lavori Pubblici possa approvare la perizia in esame”.
Il Patricolo da espertissimo tecnico fa iniziare i lavori immediatamente e le prime opere riguardano il completamento del materiale lapideo che rivestiva le facciate.
Si tratta di piccoli conci squadrati di una calcarenite compatta a grana finissima, con un’alta percentuale di carbonato di calcio e con una colorazione leggermente gialla mirante al grigio.
Il paramento lapideo del Patricolo riutilizzato non supera il 10 per cento del totale e nell’intervento le modanature, gli archi ed i semplici fondi ancora in situ vengono dismessi per facilitare l’opera di ripristino, nella quale, in più occasioni, i materiali originali, dopo essere serviti come modelli per le repliche, non vengono riutilizzati a causa del loro pessimo stato di conservazione o ricollocati in luogo diverso dalla loro posizione originaria.
Nella perizia infatti si fa menzione di “demolizione delle fabbriche a riprodurre” e non dello smontaggio e della numerazione degli elementi lapidei da ricollocare nella precedente giacitura.
Sulla scorta degli impalpabili indizi ritrovati dopo l’isolamento del monumento, Patricolo ridisegna le facciate, componendo slanciati ed eleganti archi ciechi aggettanti, che avviluppano tutto l’edificio.
Nella facciata occidentale il materiale lapideo per il nuovo rivestimento è di 34,31 metri cubi per uno sviluppo di 73,70 metri quadrati su una superficie totale di circa 76 metri quadrati.
Per la facciata settentrionale le proporzioni del nuovo paramento introdotto sono di 102,48 metri quadrati contro circa 104 di superficie totale per un ammontare di 51,24 metri cubi.
Le altre due facciate subiscono lo stesso trattamento.
In particolare in quella orientale, oltre al ripristino del paramento lapideo, si ricostruisce tutta la parte superiore dell’abside centrale fino all’attacco con la copertura, di cui non esisteva più alcuna traccia.
Alla sommità, sul piccolo muretto d’attico che margina il perimetro della copertura, a modello di alcuni elementi originali rinvenuti nell’angolo destro della facciata orientale, viene ricostruita tutta la decorazione costituita da piccoli merli collegati come un unico elemento nastriforme lavorato a traforo.
La decorazione traforata spicca da una fascia recante una iscrizione a bassorilievo in lingua latina di cui cinque lettere appaiono essere rifatte a nuovo, mentre tutto il resto, per il totale circuito, è stato reintegrato con conci di arenaria lavorata a pelle liscia.
La perizia di spesa prevede anche l’esecuzione di alcune opere da eseguire all’interno della chiesa ed in particolare il restauro della pavimentazione a mosaico di cui non vengono specificate le quantità, e neanche le tecniche ed i materiali d’intervento.
Solo l’ammontare della spesa prevista di tremila lire, rispetto alla previsione totale di ventimila lire per tutti i lavori, può dare la dimensione della corposità dell’intervento di ripristino.
Analoga considerazione può essere fatta per la previsione di spesa relativa alla “demolizione degli stucchi” che ricoprivano le pareti e le volte della chiesa ed il cui unico riscontro, per poter apprezzare la quantità delle asportazioni ci è dato dall’ammontare della spesa che è stato di mille lire, cosa che fa.supporre che la chiesa fosse completamente rivestita e che l’intervento ha interessato la totale liberazione che ancora oggi si può riscontrare.
Nell’ottobre del 1884 i lavori sono completati, tranne che per ciò che riguarda il rivestimento esterno, con intonaco, delle tre cupolette.
A tal proposito, prima di arrivare ad una determinazione definitiva, anche per evitare la continuazione di polemiche non ancora totalmente sopite, Patricolo chiede che la sua proposta sia autorizzata dal Ministero.
Di conseguenza Francesco Lanza, principe di Scalea, Regio commissario dei Musei e degli Scavi, richiede la formale autorizzazione.
Nella stessa è contenuta anche la descrizione dello stato di conservazione delle cupole prima delle liberazioni: queste “furono in tempi a noi vicini coperte con un tetto di tegole, a forma di enormi ombrelli. Tolti questi dannosi ingombri, non solo bruttissimi alla vista, ma danneggianti col loro peso le fabbriche di sotto, è nata la necessità di rimettere in buone condizioni l’intonaco onde erano esternamente rivestite quelle cupole; e però il direttore del restauro, ad evitare le postume recriminazioni degli artisti che nelle cupole di S. Giovanni degli Eremiti alla verità storica avrebbero preferito l’effetto pittorico…, (chiede che) piaccia a codesto Ministero di decidere se dette cupole debbono rivestirsi dell’intonaco biancaccio preferito dai paesisti o da un intonaco rosso dello stesso impasto e dello colore adoperato costantemente dagli antichi, secondo un campione che quì si acclude dell’intonaco trovato nelle stesse cupole di S. Cataldo”.
La decisione però non è immediata. In una annotazione a margine della richiesta si riscontra: “Mandare il campione al dott. Bongionnini. Non conviene prendere la risoluzione proposta dal R. Commissariato, fino a che non si sia recata a Palermo la rappresentanza della Commissione permanente di Belle Arti”.
Non è stato trovato alcun elemento per stabilire la data della visita della rappresentanza ministeriale, né se questa sia stata effettivamente svolta.
Nei primi mesi del 1885 il cantiere si era già chiuso e le cupole erano, come ancora oggi, rifinite con un intonaco di colore rosso cupo, come aveva proposto Patricolo, dello stesso colore di quelle di S. Giovanni degli Eremiti.
Nel 1884, su progetto dell’architetto palermitano Giuseppe Patricolo, il vetusto monumento fu restituito, dopo radicali restauri, alla originaria purezza dei volumi, che ne fanno una tra le più significative e pregevoli espressioni dell’Architettura che fu detta arabo-sicula, od arabo-normanna o romanico-siciliana, per l’epoca della sua fioritura, e che nella Storia dell’Architettura medioevale resta come mirabile esempio di un raro fenomeno di sincretismo, cioè di una fusione di tre correnti di pensiero artistico (il latino, l’arabo e il nordico normanno) che riuscì a produrre opere di deciso e cristallino carattere unitario o di un inconfondibile stile.
La chiesa nel 1937 fu assegnata all’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e, da allora, il largo sul quale sorge (e lo spazio sottostante su Via Maqueda) è stato denominato “Largo dei Cavalieri del Santo Sepolcro”.
L’Ordine cura la manutenzione e lo ha fatto rivivere, sia come casa del Signore per le officiature dell’Ordine stesso, sia come insigne opera architettonica per gli studiosi e per i turisti, i quali possono ammirare, anche nell’interno, l’armonia dello spazio e la nuda semplicità strutturale che contribuiscono a suscitare un senso di mistico raccoglimento, meglio di certi sontuosi tempi di epoche a noi più recenti.
Nel 2015 è stata dichiarata Patrimonio dell’UNESCO
Roberto Calia
(dal volume L’Ordine Equestre del S. Sepolcro in Sicilia)
L’antica Compagnia, un tempo Confraternita, di S. Caterina d’Alessandria in Palermo ebbe origine all’inizio del sec. XV. Ci informa lo storico Valerio Rosso che nel 1401 esisteva l’elenco dei confrati.
Il sacerdote D. Paolo di Caro, confrate di questa Confraternita, nel 1593 la fece elevare a Compagnia sotto la denominazione di S. Caterina d’Alessandria, e l’11 settembre dello stesso anno ne ottenne l’autorizzazione del Senato palermitano.
L’oratorio fu costruito nel quartiere dell’Olivella (così denominato da un albero di olivo dalle proprietà miracolose), dove sorgeva la casa, e poi la chiesa, di S. Rosalia, vicino al luogo dove sorge oggi la chiesa di S. Ignazio martire, con l’annesso convento dei PP. della Congregazione di S. Filippo Neri.
In questi spazi vi fu anticamente una casa di Sinibaldo, signore della Quisquina e del monte delle Rose, padre della Santa Vergine Rosalia.
Inveges, nell’opera “Palermo Nobile”, a foglio 342, scrive che in questo luogo nacque S. Rosalia; essa, “come attesta l’istessa tradizione, fu nutrita e allevata in quella casa, che era propria, e paterna e che dopo fu conservata in chiesa”
Lo stesso sostengono D. Vincenzo Auria, nella “Vita di S. Rosalia” a foglio 14 Z, e nella “Rosa Celeste” a foglio 29; e il Paruta, nel “Trionfo di S. Rosalia”, a foglio 43.
Anche lo storico benedettino alcamese Pietro Antonio Tornamira e il canonico Antonino Ignazio Mancuso sostengono che la grande santa palermitana sia nata in questa casa.
Il Senato palermitano, dopo la sua morte, a ricordo della sua nascita o abitazione in questo luogo, fece erigere una chiesa in suo onore.
In una lettera di D. Vincenzo La Farina del 31 agosto 1620, riportata dall’Auria nell’opera “Rosa celeste”, sta scritto: “Essendo in Palermo, ebbe dalla Regina la villa dell’Olivella: dopo la morte fece tanti miracoli, che il Senato di Palermo, fece una chiesa in onore di lei all’Olivella, con farvi dipingere la sua Immagine. Pertanto la fondazione di questa chiesa è da farsi risalire subito dopo la morte di S. Rosalia, che avvenne nel 1160.
Il Cascini, nel libro 1, cap. 2, foglio 10, descrivendo le chiese dedicate a S. Rosalia, scrive: “Pongo nel primo luogo l’altra sua chiesa sopra notata nel catalogo dell’Abate Palermitano, nominata dell’Olivella, per un cotale albero che era anticamente in quel luogo; havea questa chiesa appresso un horticello, e un pozzo d’onde per devozione di S. Rosalia s’attingeva quell’acqua per gli infermi, come pur hoggi s’attinge.
Una donna palermitana di nome Teofania, nel suo testamento rogato presso il not. Benedetto Puderico il 18 aprile 1257, assegna un legato di tarì uno alla chiesa di S. Rosalia, da alcuni impropriamente ritenuta quella sul monte Pellegrino.
Nel 1401 fu fondata, sempre a Palermo, una confraternita dedicata a S. Caterina martire.
Pietro Cannizzaro, dal ruolo dei fratelli defunti del 1401 evidenzia: “Annum quo fuerit he(ae)c Confraternitas, de qua est sermo, fundata incertum habeo: tamen si annus annotatus in tabula lignea que(ae) hic reperitur, in qua nomina confratrum Mortuorum annotantur etiam fundationis, hic est ut infra: Iesu Christi nomine. Amen Anno Domini MCDI die XXV Novembris festa Gloriosae Virgins, Catharinae Martiris confesta est haec tabula defunctorum fraternitas V. Ecclesiae S. Catharinae de Olivella”.
Lo storico Baldassare Zamparrone evidenzia che questa era, in ordine cronologico, la settima Confraternita di Palermo.
A questa Confraternita fu poi concessa, nel 1415, dal vescovo Ubertino dei Marini, la vicina chiesa di S. Rosalia: “Anno 1415 domum avitam S. Rosaliae Senaxus Populusque Panormitanus, in eius templum conversam uniit, sodalitio S. Catharinae Olivellae, cum onere celebrandi natalem 4 Septembris”.
Il Cascini scrive che la Confraternita di S. Caterina “dopo vi fabbricò a canto un’altra chiesa in honore di S. Caterina, Vergine Martire, attaccata insieme con quella di S. Rosalia, che, non essendo ancora compita, havea due soli archi o cappelle, ma così imperfetta la lasciarono, benché non lasciarono di celebrarvi la sua festa ogn’anno a 4 di Settembre, come da tempi immemorabili si costumava di fare, né di venerarvi in una antichissima tavola la sua devota Immagine e, oltre che nella nuova chiesa di S. Caterina, fra molte altre vergini, la dipinsero nel tetto”. Di questo atto di unione vi è menzione nel Rollo dei tonni fatto nel 1439 e riferito dal Serio sopra la bolla di Clemente VIII, ove si legge: “Pro Ecclesia S. Caterinae de Olivella cum cappella S. Rosalie simul coniunctis”.
In questa citazione si chiama cappella non chiesa, perché rimase incompleta con due soli archi. La sopracitata chiesa, fabbricata dalla Confraternita, fu successivamente consolidata ed abbellita. Valerio Russo così scrive: “S. Caterina l’Olivella. Questo è un tempio di sito mediocre, il quale fu antiquamente edificato, però è stato reformato l’anno MCDXCIX. Sì come si vede sopra la porta da la parte dentro, che dice così: Regnante divo Ferdinando Rege MCDXCIX”.
Il Cannizzaro scrive: “È certo che fu fatta la Compagnia da fratelli della Confraternita, che fabbricarono un oratorio nello stesso luogo in cui s’era pur cominciata una nuova chiesa.
Essendosi fondata la Congregazione dell’Oratorio in Palermo, nella chiesa di S. Pietro Martire, nel 1594, ottenne da questa Confraternita la chiesa antica di S. Rosalia, colla chiesa nuova cominciata e non finita. Fu rogato l’atto della concessione presso il notaio Doroteo Landolina a 17 Aprile del 1594, dove si legge che i Rettori della Confraternita di S. Caterina, col consenso dei fratelli di essa, concedono ai Padri della nuova Compagnia dell’oratorio: la nuova chiesa cominciata, contigua alla chiesa vecchia, l’oratorio nuovo della Compagnia, e la cappella di S. Rosalia (“concesserunt et concedunt… ecclesiam novam inceptam, seu locum, et maragmata…usque modo facta in dicta ecclesia nova, confinante cum predicta ecclesia vetera dictae Confratemitatis, oratorium novum dictae Societatis, et Cappellam nominatam S. Rosaliae tantum et non ultra”), e con diverse condizioni e pesi, come si legge nell’atto della concessione, e come s’ha riferito scrivendo della chiesa di S. Ignazio di detta Congregazione dell’Oratorio. Di questa concessione fa menzione il Cascini citato, a f. 11. Quindi, col progresso del tempo, i fratelli tutti della Confraternita pensarono ad aggregarsi alla Compagnia: cosicché la Confraternita si estinguette.
Poco distante di essa fu fabbricato dalla Compagnia un oratorio, che nel 1638, al tempo del Cannizzaro, era gia perfezionato.
Il Tornamira scrive che le chiese di S. Rosalia e di S. Caterina l’Olivella furono unite alla chiesa di S. Maria della Speranza fuori la Porta Nuova e che fu eletto Beneficiale di dette tre chiese il chierico Niccolo Polizzi dall’Arcivescovo di Palermo D. Pietro Aragona a 29 Gennaio 14.ma indizione 1555, che ne prese il possesso nello stesso giorno, come si desume dai libri della curia arcivescovile.
Inoltre il Tornamira sostiene che queste chiese furono poi unite al Seminario dei chierici di Palermo dall’Arcivescovo D. Cesare Marullo il 2 agosto 1588.
La prestigiosa Compagnia di S. Caterina d’Alessandria, all’inizio del XVIII secolo, secondo le esigenze del tempo, fece costruire un proprio oratorio un po’ più avanti di quello cinquecentesco, nell’attuale via Monteleone n. 52. Non si conosce 1’architetto progettista.
Il prospetto principale, che (risale probabilmente al 1740), è molto semplice e delimitato da due lesene (una per lato, al centro vi è un portale in conci di pietra squadrata), sormontate da un cornicione d’attico a due pire di pietra.
Sopra il portale d’ingresso, finemente contornato da modanature architravate, si apre una finestra, decorata dalla conchiglia e dalle doppie volute laterali. Sul prospetto che dà sulla piazzetta e ripetuta l’assialità delle lesene, che scandiscono la partitura in due stretti campi laterali ed uno centrale, ampio e di poco più elevato, dove si aprono tre finestre.
Il cornicione d’attico evidenzia il blasone araldico centrale. La composizione, nella sua semplicità, si distingue per 1’armonia degli elementi decorativi ed architettonici, sapientemente connessi.
A coronamento sui quattro angoli stanno i vasitorcieri scolpiti, tipicamente settecenteschi. Dall’ingresso principale all’Oratorio si accede in un piccolo androne, con sulla parete frontale un bellissimo dipinto su tela (attribuito a Gaspare Bazano), raffigurante la Vergine con il Bambino Gesù in braccio, mentre sta per porgere un anello a S. Caterina d’Alessandria (per lo Sposalizio) ; sullo sfondo, in alto, alcuni suonatori ed, ancora più in alto, due puttini in atto di porre sul capo della S. Martire una corona regale; la tela di forma rettangolare è incassata in una cornice di gesso colorato, sormontato da una conchiglia in stucco dorato, con sopra un racemo e con al centro un cartiglio annodato.
Da un attento esame critico di A. Cuccia si conosce quanto segue: “Il dipinto proviene dalla chiesa benedettina di S. Caterina di Cinisi, e fu trasferito nella sede attuale assieme a tutte le opere che decoravano quella chiesa, adattata poi ad aula consiliare del Comune” (Mangiapani, 1910, pp. 36-37).
Il tema non rappresenta un avvenimento reale o presunto tale, ma una visione. Il Fidanzato divino è raffigurato sotto le sembianze di Gesù Bambino nelle braccia di sua madre. Un gruppo di angeli assiste alla cerimonia, altri suonano; sulla quinta centrale che divide il fondale in due brani paesistici, una schiera di putti, come un coro di pueri cantores, inneggia sul palchetto di una nuvola; dall’alto piombano due angioletti che reggono un cartiglio.
Il tema iconografico “deriva da una leggenda raccontata nella seconda metà del secolo XV dal monaco belga Pierre Dorland; il re Costo, sul letto di morte, fa promettere a sua figlia Caterina di non sposare che un uomo che la eguagli in saggezza e beltà. La madre di Caterina, che era in segreto una cristiana, la conduce da un eremita che le parla di un fidanzato capace di superarla in tutto e il cui regno è eterno: nello stesso tempo le mostra un’immagine del Bambin Gesù tra le braccia della Vergine. Caterina s’inginocchia davanti all’immagine del suo fidanzato mistico” (Réau, 1955, pp. 267-268). La committenza benedettina promuove, in seno alla propaganda post-tridentina, il culto della santa in questa particolare accezione per privilegiare l’aspetto legato alla cultura e alla scienza in generale, peculiare alla figura di S. Caterina, la santa che aveva confuso con la sua saggezza i filosofi d’Alessandria e tale aspetto ha da sempre connotato l’abito benedettino come Ordine colto.
Il tema dello “Sposalizio mistico” viene ad esaltare il ruolo della cultura, col tono persuasivo di una scena di stampo familiare e nello stesso tempo cortese, ben comprensibile ai ceti medi emergenti, spesso investiti del ruolo di confrati, e si propone come dolce novella cristiana per il popolo.
Il dipinto fu reso noto da Teresa Viscuso (1985, p. 26), che lo ascrisse ad “Ignoto del primo ventennio del secolo XVII”, assieme ad un gruppo di opere orbitanti fra Trapani e Palermo, accomunate da “caratteri attinenti alle evidenze stilistico-formali dell’ambito Salerno, Vazano, Bazano, D’Asaro”, ad ulteriore conferma di larghi scambi fra questi artisti. Molte opere raccolte dalla studiosa sotto questa dicitura sono documentate di Gaspare Bazzano (cfr. Regesto documentario) ed abilitano pertanto a riferire allo stesso la pala di Cinisi, connotata da tenere cadenze e sfaccettature cromatiche di accento barocista.
BREVI CENNI STORICI
La Chiesa di San Giuliano, è per molti studiosi la più importante di via Crociferi (proclamata dall’UNESCO patrimonio dell’Umanità), una delle massime espressioni del barocco catanese, che ha avuto origine dal disastroso terremoto che l’11 gennaio 1693 sconvolse gran parte della Val di Noto (le attuali province di Catania, Ragusa e Siracusa). La via, una delle più antiche della città, si trova a mezza costa della collina che corrispondeva alla parte meridionale dell’Acropoli Greco-Romana e congiungeva nel periodo romano il complesso del teatro con l’annesso odeon all’anfiteatro ed il cui sottosuolo raccoglie numerose “segrete” testimonianze di quel periodo (proseguendo per circa 50 m lungo la via si possono osservare attraverso alcune vetrate i resti di un portico di una villa romana messa alla luce alla fine degli anni ottanta). La chiesa, che per alcuni studiosi sorge sui resti del tempio di Castore e Polluce, era annessa al più antico Monastero di Benedettine di Catania, se, come molti storici affermano, esso traeva origine da quello fondato nel VI sec. da S. Gregorio Magno sulla collina di S. Sofia fuori la cinta urbana nel quartiere di Cibali ove ora sorge la Città Universitaria e quindi trasferito nel 1332 entro la città annesso alla chiesa di Santa Venera, nel quartiere della Civita nei pressi dell’antico porto ove ora si erge la chiesa di S. Gaetano alla Marina che racchiude ancora al suo interno alcuni resti architettonici. Dopo che le figlie di Federico III di Aragona , Re di Sicilia, vi soggiornarono dotandolo di molti benefici, per tradizione il monastero ospitò le fanciulle più nobili della città — li signurini — che vi entravano per essere educate secondo il loro rango o per prendere i voti. A seguito del terremoto del 1693 che aveva raso al suolo il monastero, nel 1709 iniziarono i lavori di ricostruzione nel più ameno e sicuro sito attuale e nel 1711 fu edificata una prima piccola chiesa che in seguito divenne il parlatorio delle educande e la cui facciata si può ancora ammirare lungo la via Antonino di Sangiuliano. Il vescovo Pietro Galletti (a Catania dal 1729 al 1757) diede quindi incarico all’architetto Giuseppe Palazzotto di costruire una chiesa monumentale. A tal riguardo fin dal 1741 si hanno documenti d’archivio. Gli studiosi ancor’oggi dibattono sul ruolo avuto da G.B. Vaccarini, incontrastato massimo architetto della ricostruzione di Catania, nella progettazione e realizzazione dell’opera (per alcuni la vera mente.”, per altri la sua fu solo un’importante collaborazione in qualità di sovrintendente della città e architetto del vescovo). La chiesa, inaugurata il 22 luglio 1751, fu consacrata dal vescovo Ventimiglia l’8 aprile 1763 sotto il pontificato di Clemente III, regnante Ferdinando II delle due Sicilie. Nel 1866 lo Stato Italiano e successivamente il comune (nel 1875), con la liquidazione dei beni ecclesiastici, incamerò il monastero, mentre la chiesa passò alle dipendenze della Basilica della Collegiata. Nel 1927 il sacro edificio fu riaperto al culto per essere nuovamente chiuso due anni dopo. Dal 1933 al 1939 fu salvato e restaurato dall’imminente sfacelo, dal gruppo dei cavalieri catanesi dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, sotto la guida del duca Salvatore Trigona di Misterbianco e proclamata chiesa capitolare dell’Ordine dall’allora Arcivescovo Mons. Carmelo Patanè. Nel 1954 i locali annessi alla chiesa divennero sede del Pontificio Istituto per le Missioni Estere. A seguito del terremoto del 1990, vennero effettuati importanti lavori di messa in sicurezza. Dal 1996 al PIME è subentrato l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “San Luca”, collegato alla Facoltà Teologica di Sicilia.
ARCHITETTURA
Il prospetto in calcare, con una soglia dall’elegante disegno in acciottolato bianco e nero “ciacato” , è rivolto a ponente ed è preceduto da una larga e breve gradinata in pietra arenaria. Un’imponente cancellata ricurva in ferro battuto recante sull’ingresso gli attributi episcopali di S.Giuliano (1832) separa il sagrato dalla sottostante strada. La facciata, coronata da un elegante loggiato con panciute gelosie, è percorsa da una cimasa terminale con vasi e fruttiere e presenta pochi elementi decorativi e paraste doriche poco aggettanti. Nella parte mediana e convessa del prospetto si apre un ampio portone recante le rosse croci dell’Ordine Equestre del S. Sepolcro di Gerusalemme, con timpano spezzato e accompagnato da due figure simboliche che sembrano custodire la targa centrale con epigrafe e data (1750). Due porte laterali, sormontate da finestre con putti e fruttiere, simulano inesistenti navate. Il partito centrale del secondo ordine mostra un finto balcone d’affaccio ed è chiuso in alto da un timpano triangolare. Una loggia ottagonale da cui si ammira uno stupendo panorama sulla città e sull’Etna gira attorno alla cupola dell’edificio, nel suo ambulacro sono raccolte le “vecchie” campane. La sporgente facciata, ad un occhio attento rappresenta una stupenda quinta che apre il cuore della via sacra a chi proviene dalla salita di Sangiuliano, mentre sembra chiudere a settentrione lo slargo della stessa. Accanto alla chiesa sorge il monastero che ha subito nei secoli varie vicissitudini e di cui si spera un utilizzo più appropriato alla sua splendida architettura. Una curiosità, durante i lavori che interessarono negli anni 50 il chiostro, la fontana che sorgeva al centro di esso, fu trasferita “temporaneamente” e tuttora si trova all’interno della Villa Comunale Bellini, a pochi metri dall’ingresso di piazza S.Domenico.
I N T E R N O
L’elegante interno è un perfetto ellittico di tipo borrominiano, terminato nel 1760, costruito su pianta ottagonale e arricchito all’estremità da due bracci absidati. Pilastri poco aggettanti, con sobri listelli dorati, sono delimitati da una trabeazione su cui poggiano gruppi di candelabri in ferro battuto. Al di sotto un fregio a riquadri e meandri dorati dei primi del XIX secolo è interrotto dalle grate ricurve di comunicazione con il convento Molteplici lampadari in bronzo e gocce di cristallo (ninfe) pendono dal soffitto, mentre bracci portalampade adornano i lati delle cappelle. Il pavimento è un fastoso intarsio di pregiati marmi policromi che con il suo elegante disegno accentua lo schema compositivo della chiesa. La volta termina con l’affresco di G.Rapisardi (1842) “S.Pietro consegna il vangelo a S.Berillo”, primo vescovo di Catania. L’altare maggiore eseguito a Palermo da Vincenzo e Vicolo Todaro nel 1799 su disegno del Vaccarini è uno splendido gioiello di marmi, diaspri e lapislazzuli con decorazioni in rame dorato e cesellato. Ai lati le figure della Fede e della Carità e due angeli. Sopra l’altare è posto un Crocifisso bizantineggiante su tavola sagomata del XIV sec. Quattro sobri altari ornano l’aula. Sul primo a destra è posto il dipinto “S.Antonio Abate” del 1643, di Pietro Abbadessa, recuperato dalle rovine del primitivo convento. Sul secondo altare una splendida e dolcissima “Madonna delle Grazie con i santi Giuseppe e Benedetto” di Olivio Sozzi XVIII sec. Sul primo altare di sinistra un gruppo marmoreo raffigurante “il Crocifisso ( scolpito in un unico blocco di alabastro) e recentemente restaurato dalla Sezione dell’Ordine con la Maddalena, 1’Addolorata e S.Giovanni” (1797), sul fondo 24 reliquari a teche. Segue l’altare di San Giuliano, il cui culto fu introdotto in Sicilia dai Normanni, titolare della chiesa, raffigurato con i paramenti di Vescovo di Le Mans con ai lati scene della sua vita anch’esso recuperato dalle macerie del vecchio monastero (anonimo del XVII sec). Sopra l’ingresso sporge una stupenda cantoria a gelosia dorata, con aquila benedettina che celava uno splendido organo. Il pavimento nasconde la cripta, vasto ambiente rettangolare, adorno di un semplice altare, circondato ai muri da numerosi colatoi.
A cura del Cav. Sergio Sportelli
Raffinato gioiello barocco, incastonato nel cuore del centro storico trapanese, la Chiesa dell’Immacolata Concezione – tradizionalmente appellata con il nomignolo di Immacolatella – venne edificata nella seconda metà del XVII secolo, su commissione della Confraternita dell’Immacolata Concezione che necessitava di una sede propria. Nel 1732, venne completata con l’ampliamento del cappellone absidale ad opera dell’architetto trapanese G. B. Amico.
Ciò che costituisce il maggior pregio di questo piccolo e grazioso edificio è la straordinaria bellezza dell’impianto decorativo del suo interno. La semplicità planimetrica della chiesa, a navata unica coperta da volta a botte è, infatti, vivificata con gusto da ricchi stucchi che, opera degli scultori Nicolò Carrera e Alberto Orlando, decorano con mascheroni, cariatidi, fogliami e volute ogni elemento della struttura architettonica in un meraviglioso connubio fra scultura e architettura
Veramente degno di nota, il cappellone absidale è uno spazio scenograficamente organizzato di sicuro impatto emotivo sullo spettatore, grazie al geniale gioco di volumi e all’accurato studio della luminosità ideati da Giovanni Biagio Amico. I numerosi rimandi simbolici alla purezza della Madonna e alla sua “Immacolata Conceazione” (all’epoca oggetto di vive polemiche) nascosti dietro i ricchi motivi decorativi che la ornano, fanno della chiesa un edificio che meria di eseere visitato non solo per il suo profondo valore artistico, ma anche per la sua mistica valenza devozionale.
La Chiesa di San Nicola è collocata a monte della città, nelle vicinanze della Chiesa di Santa Maria del Monte, detta “la Matrice”, chiesa visitata in conclusione dei 142 gradoni che compongono la famosa “scalinata”, che collega la parte antica di Caltagirone con la parte più nuova della città.
Della Chiesa di San Nicola non si conosce la data di costruzione ma con molta probabilità fu eretta nel periodo normanno vicino alla chiesa Matrice.
Patrono della città, il culto di San Nicola potrebbe risalire al periodo bizantino.
Nel 1090 il conte Ruggero elesse San Giacomo protettore di Caltagirone sostituendo in tale prerogativa San Nicola di Mira.
La chiesa non cadde col terremoto del 1693.
A seguito di un miracolo, l’edificio fu ingrandito nel 1718 dalla confraternita dei Massari e dai devoti.
Nella seconda metà del Settecento l’architetto Natale Bonajuto vi apportò delle modifiche ridisegnando la facciata in ordine gigante di stile ionico.
Il prospetto, incompleto, è costituito dal portale con timpano triangolale sormontato dalla grande finestra rettangolare, il tutto è incorniciato da paraste binate reggenti il marcapiano sul quale poggia la cella campanaria opera del Maruviglia.
L’interno è a navata unica pianta rettangolare.
Nella zona del presbiterio si erge l’altare maggiore in marmo policromo sul quale domina la statua lignea raffigurante San Nicola.
Dal maggio del 2014 la Chiesa è stata affidata alla Delegazione di Caltagirone dei Cavalieri dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme – Luogotenenza per l’Italia Sicilia, per svolgere le attività concernenti la loro missione.
Notizie sulla Chiesa monumentale di San Domenico in Noto
La chiesa di San Domenico si caratterizza per il prospetto convesso nei cui due ordini si alternano colonne e nicchie. Fu costruita tra il 1703 e il 1727 su progetto di Rosario Gagliardi, grande protagonista della riedificazione di Noto nell’attuale sito dopo il terremoto del 1693. L’interno presenta tre navate e una cupola collocata in corrispondenza della seconda arcata; stucchi, altari in marmi policromi e pregevoli dipinti del XVIII secolo: S. Domenico che riceve lo Spirito Santo, Madonna del Rosario di Vito D’Anna. Il terzo altare della navata di sinistra presenta un Crocifisso e varie formelle marmoree con scene della Passione. Sull’altare maggiore il simulacro della Madonna del Rosario all’interno di un ciborio in legno dorato di Antonio Basile.
Con Decreto Vescovile del 2019, S. E. Mons. Antonio Staglianò, ha affidato la Chiesa alla Delegazione di Noto.
CHIESA SANTA MARIA DELLE GRAZIE – MAZARA DEL VALLO
La Chiesa delegatizia di Mazara dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme fu edificata nel 1620 per volere del vescovo Marco La Cava, con il contributo del popolo mazarese, nel sito ove era venerata un’antica e prodigiosa immagine di Maria Santissima delle Grazie.
Secondo la tradizione – avvalorata da una nota riportata nei registri di Battesimo della Cattedrale “die XII iunii, 3 ind. 1620 – il mazarese Filippo Cavalca, ritornando in città dalle terre di San Filippo d’Agira, si imbatté in una sconosciuta signora, che gli affidò un dipinto con l’immagine della Madonna da portare a Mazara per collocarlo poco oltre le mura: di fronte la porta che si apriva sulla strada che conduceva a Palermo (oggi via Madonna del Paradiso).
Al Cavalca sembrò opportuno invece conservare la sacra immagine dentro una cassa della propria abitazione.
Erano appena trascorsi pochi giorni, quando un’anziana mendicante storpia e gravemente malata, andò a bussare in casa del Cavalca per chiedere l’elemosina. La moglie Caterina, di animo profondamente religioso, aveva appena invitato la vecchietta a sedersi sulla cassa – ove era custodita l’immagine della Madonna – questa, vistasi improvvisamente guarita, gettate le stampelle, gridò al miracolo.
La notizia del prodigio si sparse immediatamente in tutta la città, e fu raccolta dal popolo e dal clero; il vicario generale Mons. Francesco Elia – futuro arcivescovo di Siracusa – si fece promotore di una pubblica colletta e nell’arco di un mese di iniziarono i lavori per la costruzione della chiesetta di metri 3 x 5 circa, dove venne collocato il miracoloso quadro della Vergine Maria sotto il titolo delle Grazie, comunemente chiamata dai Mazaresi del tempo Madonna della Porta.
Grande e costante fu il culto dei mazaresi verso la Madonna, avvalorato dalla presenza di numerosi ex voto, trafugati nel 1718 dalle truppe imperiali, sbarcate in Sicilia per la riconquista dell’isola alla Spagna.
La chiesetta, successivamente ristrutturata a spese del “Patrimonio urbano” divenne beneficio con diritto di patronato del Consiglio Municipale, che esercitò fino alla sua estinzione per effetto della legge del 18 agosto 1867 con la morte de suo ultimo beneficiale Sac. N. Stallone.
Il 29 giugno del 1898, come si evince da una lapide in marmo posta sulla facciata, il Municipio di Mazara dal Vallo fece erigere sulla Chiesa una torre campanaria con orologio, elevandola a torre civica destinata a scandire i momenti della vita quotidiana civile della Città.
Nei primi del ‘900, la piccola chiesa venne ampliata per l’operosità e l’interessamento del Sac. Ignazio Manno, rettore pro-tempore.
La chiesa venne canonicamente eretta a Parrocchia il 19 febbraio 1911 da vescovo Nicolò Maria Audino, e riconosciuta civilmente il 25 novembre 1917. Nel 1997 con decreto vescovile di Mons. Emanuele Catarinicchia la sede parrocchiale si è trasferita nella vicina chiesa di San Francesco d’Assisi.
Nel 2011 sono iniziati i lavori di restauro e consolidamento della chiesa. I lavori, conclusi nel 2012, hanno riguardato anche interventi di adeguamento dell’impianto oltre che opere di adeguamento liturgico che hanno riportato la chiesa al suo originario aspetto neo classico.
L’11 febbraio 2021 il Vescovo e Priore, S.E. Mons. Domenico Mogavero l’affida alla Delegazione mazarese dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme nominando contestualmente come rettore il Comm. Don Pietro Pisciotta, cerimoniere ecclesiastico della locale delegazione.